Qua eravamo a Milano con Beppe Bergomi. La mia tracotanza — mentre guardo da un’altra parte e avvolgo Giorgio con il braccio sinistro — è quasi aristocratica

Le mie partite più belle, ep.1

carlofilippo vardelli
6 min readNov 19, 2022

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Quattro storie di campo, quattro storie di vita

Le partite di calcio mi causavano sempre una discreta tensione. Tutte le volte che arrivavo al campo sentivo una strizza allo stomaco come quando mangi due chili di sushi. Uguale. Poi in campo mi passava, ma prima era un inferno. Non ho mai chiesto agli altri come la vivessero l’attesa, ma io stavo piuttosto male. Quella sera giocavamo alla Besurica, che per chi non lo sapesse è un quartiere di Piacenza. Era la finale 3°/4° posto di un torneo comunque discretamente importante. Cioè il livello era alto. Noi dovevamo giocare contro una squadra di cui non ricordo esattamente il nome, ma eravamo stati appena eliminati dal Rottofreno e avevamo tanta voglia di riscattarci. La semifinale era finita 4–2 per loro, ma quella partita la ricordo come un inferno. Si giocava a 9, quindi 3 difensori, 3 centrocampisti e due punte, più o meno. Loro avevano 3–4 ragazzini veramente forti. Due di questi poi me li sarei ritrovati al San Giuseppe, un anno più tardi. Alberto ed Eric, centrocampista a terzino. Poi avevano due esterni fortissimi. Tipo gemelli. Ci hanno fatto impazzire, non li fermavamo nemmeno con i falli. Una carneficina.

Quel torneo era stato parecchio emozionante per noi. Noi inteso come Carpaneto calcio. Alla prima partita, per esempio, io m’ero mezzo suicidato durante il riscaldamento. La sagoma punizioni, quella roba enorme che serve per esercitarsi nei calci da fermo, m’aveva sgambettato. Cioè, lei era ferma e io ci sono inciampato sopra come un totano. Per 30 secondi ho perso il respiro. Ricadendo sulla schiena avevo provato quella bruttissima sensazione di vedere la morte davanti agli occhi, con tutti i compagni a cerchio intorno a me. Come quando appunto muore qualcuno e ci sono i RIS che banchettano sopra al cadavere.

Alla terza partita, invece, dovevamo necessariamente vincere 10–0 per passare il turno. All’epoca si giocavano due tempi da 30 minuti (credo, aiutatemi) e lo spazio era limitato per fare 10 gol. Ricordo ancora il viaggio in macchina con mio cugino e suo padre (che era il nostro mister) a scervellarci per calcolare i gol necessari. “Ho sentito che ne dobbiamo fare 9”, “Vabbè noi iniziamo a segnare, poi vediamo”, “Forse ne servono 11”. Fu una partita realmente esaltante. Dopo ogni gol chiedevamo all’arbitro quanti ne mancavano alla soglia. Se ci ripenso oggi è stata una dimostrazione di forza mentale paurosa. Scendemmo in campo come belve assetate di sangue. Finì una roba come 11/12–0, adesso non ricordo. Quella squadra — noi — avrebbe potuto fare più carriera nel mondo del calcio dilettantistico. Di 13 ragazzini nel roster, in tre fecero il provino al Piacenza, in tre andarono a giocare al San Giuseppe e un altro paio finirono al Fiorenzuola.

Nel primo turno ad eliminazione ci si parò davanti lo Sporting Fiorenzuola: me lo ricordo bene perché li allenava il mio vicino di casa. Vicino di casa da cui andavamo sempre a vedere il posticipo di Serie A con mio padre. Vincemmo 5–2, una roba del genere. Feci gol anche io. Uno slalom in mezzo a tre a partita praticamente finita. Me lo ricordo perché dopo il gol il mio vicino mi disse: “Mi fai anche gol?!”. Era simpatico, aveva fotografato bene la situazione. Non segnavo tantissimi gol, preferivo farli segnare. Avevamo un centravanti fortissimo — mio cugino — e un paio di esterni veramente di qualità. Dovevo semplicemente passargliela. Mi ricordo ancora un assist abbastanza strano per le mie caratteristiche. Andai a recuperare palla sull’esterno e la crossai in scivolata. Una palla perfetta sulla testa di mio cugino. Gol. Quel torneo mi aiutò a scoprire diverse caratteristiche del mio gioco: i gol, le scivolate, la rabbia. Forse feci anche il capitano.

Solitamente alle partite mi accompagnava mio nonno, perché il torneo era in mezzo alla settimana e i miei lavoravano. Mio nonno è stato una specie di leggenda per me, mi raccontava tutte delle cose strane, mi faceva fare dei giri incredibili. In macchina andavamo pianissimo, tipo 70km/h come velocità massima, però ci importava poco. Cioè: a me importava, perché avevo sempre paura di arrivare in ritardo, ma lui se ne fregava altamente. Ci teneva molto a me: non faceva altro che adularmi. “Sei bravo, sai giocare bene”. Tutte le stagioni mi chiedeva se volessi fare un provino al Piacenza, ma io gli rispondevo di no. Quando ero piccolo volevo solamente stare con i miei amici e andare a dormire da loro al sabato sera dopo le partite, del Piacenza mi fregava zero.

In semifinale, come ho già detto sopra, prendemmo una rumba memorabile. Finì “solo” 4–2, ma ci schiantarono. Giocai male, Alberto del Rottofreno mi umiliò. Andava il doppio di me, anche perché pesava 30kg bagnato. A me è sempre piaciuto mangiare. Dai, forza, fatemene una colpa. Ero “leggermente” sovrappeso, ma compensavo con la qualità. Vabbè, fu una ripassata memorabile, con la conseguenza di accontentarsi del 3°/4° posto: la finalina.

Giuro non riesco a spiegarmi perché Stefano e il suo avversario stiano guardando verso l’infinito. PS: Che belle che erano quelle Adidas blu. Mi sentivo Patrick Vieira. Centrocampista devastante.

Una volta arrivati al campo loro volevano vincere tanto quanto noi. Ripeto, non mi ricordo l’avversaria, ma quella partita fu una battaglia. Ecco la successione dei gol (anche qua spero di non sbagliarmi): 1–0 per noi, pareggio, 2–1 e 3–1 per noi, gol del 3–2 loro a 10 minuti dalla fine. Tensione alle stelle.

All’epoca il nostro mister faceva qualche esperimento curioso. Essendo abbastanza statiche le posizioni del 3–3–2, lui cambiava. Questo in attacco, questo in fascia, quello a destra. In quella finalina, a dieci minuti dalla fine, decise di spostare mio cugino — l’attaccante — in difesa e alzare me come unica punta. Eravamo una sorta di 4–3–1. Avevo la 10, la fascia di capitano e sentivo di dover cristallizzare quel momento con qualcosa di storico, per ricordarlo negli anni a venire. Loro ci attaccano a testa bassa, mi cugino si avventa su un pallone pericoloso e lo calcia più lontano possibile di controbalzo, con la caviglia leggermente piegata all’interno. La palla prende una traiettoria a giro, come un perfetto tiro d’esterno. Io sono fermo in attacco, praticamente inchiodato al suolo, ma vedo quella palla arrivare verso di me e riaccendo i muscoli. Intorno, nessuno. La metto giù come viene, la copro con il corpo per proteggerla dall’arrivo del difensore e con la punta, da calcetto, la metto nell’angolino basso anticipando l’uscita del portiere.

Gol, 4–2, partita finita. Terzo posto. Sono talmente contento che corro verso la tribuna, mi tolgo la maglietta e festeggio in scivolata, come facevano in Premier League. Una scena densa di liquido della felicità, ma che rivista (per modo di dire) oggi risulta parecchio imbarazzante — era un torneino di provincia e ovviamente sotto la maglia da calcio avevo quella della salute, perché ok il calcio ma all’epoca era vietato ammalarsi. Mi ricordo che alle spalle arrivò un altro nostro compagno — Yuri — e mi disse una roba del tipo: “Ci hai salvato tu, ci hai salvato tu”. Una frase di una solennità clamorosa, tipo finale di Champions. A fine partita esultammo con gioia, il terzo posto era tanta roba. Se non ricordo male fu l’ultimissima partita che giocammo tutti insieme, perché l’anno dopo molti — tra cui io — andarono via e quel gruppetto di amici si sgretolò. In tre anni riuscimmo a fare passi da gigante, riuscimmo a crescere, e molti di noi poi spiccarono realmente il volo. Emozionante.

PS: anche se oggi ci siamo (quasi) tutti persi di vista, appena ci ritroviamo — in maniera casuale — basta un click per tornare indietro, quando ci importava solamente di giocare a calcio e la vita era nettamente più facile di così.

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